Io vidi cose - Antonio Gualtieri Paternò

a cura di Martina Lolli
8 - 22 maggio 2022
L’Arca - Laboratorio per le arti contemporanee
Largo San Matteo - Teramo

Per "stabilizzare" un'immagine interiore è necessario attivare i canali di scarico dei pensieri inattesi.
Emilio Fantin

Nel “Manifesto estetico dell'impercepibile” Emilio Fantin suggerisce la disposizione di chi si accinge alla visione di un’immagine che viva al di là della luce fisica. Si tratta di un’immagine pronta a sporcarsi con i segni della memoria che permangono e affiorano con prepotenza, interferenze che corrompono la purezza del paesaggio interiore. La personale di Antonio Gualtieri Paternò si offre come un viaggio, e come ogni viaggio che si rispetti, avrà guide e mentori pronti a sostenerci nel caso smarrissimo il filo di Arianna del nostro personale labirinto. Le pietre miliari del percorso espositivo saranno le tele su cui la pittura decide di manifestarsi o meno: sta a noi percepire l’impercepibile o “pensare al non vedere” (Jacques Derrida), cercando di negoziare una posizione al di là o al di qua dell’opera, per coglierne il significato nella sua tautologia o racimolarlo nel piano ulteriore del senso, oltre l’immediato visibile. Nel nostro percorso - in un paesaggio ridotto ai minimi termini - potremmo percepire la vertigine dell'Arte che è quella di donarci un'immagine e mistificarla al contempo, costringendoci a ripensare di nuovo una forma, sensibile al soffio e alle carezze dell'altro.
E così perdere le coordinate di noi stessi per ritrovarci nuovi, nei fremiti del nostro essere e nelle posizioni aperte che l’Arte sempre ci invita a occupare: non al di qua o al di là, ma nel suo centro.

…in stanze della mia anima che immaginavo silenti

Il testo che segue intende accompagnare lo spettatore nel viaggio alla scoperta delle opere di Antonio Gualtieri Paternò. Si tratta di un testo tripartito che ricalca l’allestimento concepito per L’Arca - Laboratorio per le Arti Contemporanee di Teramo: a ogni stanza corrisponde un brano che - più che dare delle direttive allo sguardo di chi intraprende il viaggio - vuole donare suggestioni, creare spazi di intrusione nella logica, restituire il giusto respiro al pensiero. 
Si tratta di un percorso che ha in seno una visione radicale ed è per questo che in ogni tappa - ogni stanza de L’Arca - ci saranno dei mentori a condurre il viaggio verso nuove derive, per procedere per gradi verso il nitore di una visione che non fa promesse se non quella di includerci in una riflessione a più voci e a più immagini.

I stanza

INTRO

Per "stabilizzare" un'immagine interiore è necessario attivare i canali di scarico dei pensieri inattesi.
Emilio Fantin

Nel “Manifesto estetico dell'impercepibile” di Emilio Fantin con queste parole l’artista suggerisce la disposizione di chi si accinge alla visione di un’immagine che viva al di là della luce fisica: un’immagine pronta a sporcarsi con i segni della memoria che permangono e affiorano con prepotenza, interferenze che corrompono la purezza di un paesaggio interiore - in quella parte del libro della mia memoria.
Nella I stanza le tele sono un palinsesto che accoglie emergenze - un supporto che, strato dopo strato, mostra tracce sempre di nuovo messe in questione dall’emersione di segni precedenti. Cicatrici che vibrano sul limite della visibilità dove lo splendore della matrice dissolve forma e contenuto.

II stanza

CHORUS

Non si tratta di pensare il non vedere nel senso di darlo a vedere, di rendere infine visibile l’invisibile – soprattutto non questo. Piuttosto: che pensiero sarà un pensiero meno obbligato dalla classica analogia con la vista, dalla metafora della luce di contro all’oscurità, del far luce, del rendere chiaro, del far vedere ciò che comunque è già nell’orizzonte della vista? Non un pensiero che scelga l’oscurità in luogo della luce, operando così una semplice inversione, ma un pensiero che tenti – con uno scarto rispetto a ciò che è dato vedere, al visto – di pensare il non vedere.
Alfonso Cariolato

È Alfonso Cariolato a introdurci nella II stanza e ad affidarci alla guida sapiente di Jacques Derrida. Si tratta della prefazione dell’ultimo libro del filosofo francese dal titolo “Pensare al non vedere. Scritti sulle arti del visibile (1979-2004)”, una raccolta di saggi e critiche dedicati all’arte, dalla pittura al cinema. Qui Derrida raccoglie i frutti di una vita dedita alla speculazione e alla decostruzione dei giudizi di valore legati alla tendenza, propria del pensiero occidentale, di ragionare imbastendo incessantemente confronti binari: vero/falso, originale/copia, interno/esterno, io/altro e, potremmo aggiungere, visibile/invisibile. È nell’arte che riusciamo a percepire meglio la decostruzione derridiana, luogo di eccellenza in cui l’immagine si dà e si sottrae alla rappresentazione senza soluzione di continuità. Riusciamo a concepire il non vedere? Riusciamo ad abbandonarci alla limpidezza delle opere della II stanza sospendendo il giudizio e le aspettative?

Sono tele larghe e bianche (bianche come DIO) selezionate e organizzate nel corso del tempo e presentate con l’innocenza di una vergine.
Robert Rauschenberg

Porsi dinanzi a qualcosa che ci riguarda è il fil rouge de “Il gioco delle evidenze. La dialettica dello sguardo nell’arte contemporanea”, saggio sull’estetica minimalista di Georges Didi-Huberman, dedicato alla scultura Black box di Tony Smith, un cubo nero di acciaio. Qui la dicotomia riguarda lo sguardo che rivolgiamo alle opere: da una parte abbiamo lo sguardo che scava nell’opera per proiettarsi verso un piano ulteriore di significato - che si dipana oltre le apparenze; dall’altra lo sguardo che si àncora a ciò che si dispiega dinanzi e finisce per scivolare sulla superficie di un’immagine, sulla sua presunta tautologia (what you see is what you see). Anche qui, la dicotomia a tutti i costi non funziona. Quando ci accingiamo a godere di un’opera preferiamo vanificare la sua evidenza o sublimarla? Si tratta di abitare un luogo mentale e questo può essere al di qua dell’opera o al di là di questa e assurgere a una dimensione di fede. 
Le opere di questa stanza sono dispositivi dello sguardo e del pensiero che nella loro trasparenza ci lasciano negoziare una posizione - al di là e al di qua di ogni estetica, al di là del bene e del male. Fugace sospensione di tempo e soggettività in un’icona destinata a ripetersi. 

III stanza

OUTRO

Il tempo del prima e il tempo del poi… E tutto è sempre ora.
Mimì Clementi

Nella III stanza il nitore si condensa sulla tela. Né pienezza né vuoto, solo un battito di luce sui volti tirati. L'indefinito diviene la sua nemesi; lo specchio di luce un contraltare opaco. Questo è un luogo di disaffezione, svuota ciò che è sensuale a forza di privazione. Purga l’affetto da ciò che è temporale, confonde la voglia con le paure del passato.
La soglia che ci invitava alla riflessione, ora ci invita a perderci.
Abbiamo giorni come stanze, stanze come maglie delle nostre paure. E così veniamo avanti, aggrappati a un’immagine condannata a descriverci. Ma la nostra figura si confonde, si corrompe, si rimesta - appare e scompare di fronte alla stessa opaca prospettiva.
La vertigine dell'Arte: donarci un'immagine e mistificarla al contempo, costringendoci a patteggiare di nuovo una forma, sensibile al soffio e alle carezze dell'altro.
Vessilli della nostra immagine divina, nel viaggio continueremo a godere della metamorfosi che ci appartiene nell'intimo e che vibra nell'attimo in cui l'Arte ci costringe a vivere, seppur nel tempo fugace del godimento di un'opera.
Perdere le coordinate di noi stessi per ritrovarci in un'altra forma, nei fremiti del nostro essere e nelle posizioni aperte che l’Arte sempre ci invita a occupare: non al di qua o al di là di essa, ma nel suo centro.
Un’immagine dietro un velo. A volte immagino il mondo coperto da un velo, che nessuno ha il coraggio di scostare. E in quel frangente, quel timore - quella reverenza che ci rende umani - si fa reale nel momento in cui ci è dato scorgere una somiglianza. Nemmeno io lo volevo, scostare quel velo e fissare negli occhi quel qualcosa che ero io, ma poi s'è alzato il vento e quello che non osavo scoprire mi si cucì addosso e divenne il mio vestito. Era parte di me e io ne ero parte: l’unione finalmente avvenuta. E nel mio esserci io vidi cose che mi fecero proporre di non dire.

Gli ultimi mentori del nostro cammino sono stati il poeta T.S. Eliot e il musicista Mimì Clementi. Le frasi in corsivo del primo paragrafo sono un libero montaggio di versi tratti dai poemetti della raccolta di Eliot "Quattro quartetti", musicata da Clementi e da Corrado Nuccini nell'omonimo album. I corsivi seguenti sono tratti da canzoni dei Massimo Volume, di cui Clementi è cantante e bassista. 
In chiusura le guide a darci il commiato sono Luciano Berio che in “Laborintus II” musica le parole di Dante de “La vita nova”, brano da cui è tratto il titolo alla mostra.

Brani musicali citati:

“Quattro Quartetti” di Emidio Clementi e Corrado Nuccini 

“In nessun posto” - Ninotchka feat. Emidio Clementi
“Stanze” - Massimo Volume
"Nostra signora del caso" - Massimo Volume
"Le nostre ore contate" - Massimo Volume
“Il nuotatore" - Massimo Volume
“Laborintus II” - Luciano Berio