#2 - Leonor Fini - Stryges Amaouri

Questo scritto è parte del progetto "Viridiana", rubrica dedicata alla divulgazione della poetica di artiste contemporanee attraverso il racconto e la lettura di un trittico di opere.
Il mistero si annida già nel titolo dell’opera Stryges Amaouri, due parole che portano il segno dell’oscurità.
"Stryges" è il plurale latino di "strega" e rimanda all’uccello del malaugurio che Ovidio cita nelle sue Metamorfosi. "Amaouri" è un termine che la Fini mutua da un grimorio ottocentesco - l’Almanacco perpetuo martirio-etimologico - e indica le tenebre.
Queste due parole, non del tutto univoche, possono aiutarci a codificare il grande rebus visivo della tela, abitato dall’enigmatica figura di un animale mostruoso e da due umani che rimandano alla storia di Leonor Fini.
Allestito nella sezione espositiva “Rituali, cerimonie e metamorfosi” della personale in corso a Palazzo Reale di Milano, il quadro contiene un autoritratto dell’artista che ama raffigurarsi in molte sue opere con fogge e in ruoli differenti.
Perché per Fini l’essere cangianti è una necessità biologica prima che culturale, sin dall’infanzia: ad appena un anno la piccola Leonor e la mamma fuggono da Buenos Aires e da una relazione burrascosa, riparando a Trieste.
Il padre, non contento di essere separato dalla figlia, metterà in atto due tentativi di rapimento da cui Leonor si salverà grazie ai numerosi travestimenti pensati dalla mamma come una strategia di sopravvivenza di un nucleo familiare del tutto peculiare che includerà nel tempo zii e amici prossimi alla madre.
Nel corso del tempo il travestimento diviene per Leonor una pratica artistica: le sue opere ne sono una viva testimonianza, al pari del nutrito corpus di fotografie d’autore che le dedicano artisti come Dora Maar e Henri-Cartier Bresson tra i tanti.
Ma il ruolo che Leonor sente più affine è probabilmente quello della strega, l’ammaliatrice per eccellenza, ma anche e soprattutto una sacerdotessa custode del mistero della vita.
Nell’opera, l’uomo riverso è in uno stato di assopimento forse eterno, mentre la vegetazione attorno sta prendendo possesso del suo corpo. L’edera, cara a Dioniso, lo sta pian piano restituendo alla natura.
Novella Dafne, il ragazzo - al contrario della figura mitologica della ninfa - non si dimena, ma accetta con un’espressione quasi cosciente e distesa il suo destino.
È in atto una metamorfosi vegetale che lo preserverà dalla corruzione umana e biologica del corpo, trasformandolo probabilmente in un essere di altra forma e consistenza.
L’uomo addormentato è un simbolo ricorrente nelle opere di Leonor Fini dove la donna, desta e dominante, esprime il senso di un matriarcato benevolo, garante della memoria collettiva e protettore di ruoli sociali capaci di rigenerare la comunità.
Nella figura femminile si riconosce il volto della Fini, coperta a mezzo busto dalla staccionata che la mantiene a debita distanza dal dormiente. Il suo sguardo trafittivo è stato così definito da Mario Praz:
I celebri occhi di giaietto bruciano, infiammano, divorano: sono gli occhi che un tempo i pallidi inquisitori avrebbero addebitato alle streghe, o che forse gli antichi elleni avrebbero assegnato alle pitonesse, possedute da qualche divinità crudele e gelosa, e ancora i greci e i romani alle sibille, che hanno il dono avvelenato dello sguardo lungo, creature della soglia tra il mondo degli uomini e degli dei, invasate e liminali, dalla vitalità e dalla libertà concesse solo agli esseri straordinari e paventati.
Quindi la Fini non era l’unica a credersi capace di calarsi nei panni di una strega (strix), ma diversi suoi estimatori la ritenevano tale, in virtù dell'abilità di metamorfizzarsi e di cambiare la natura delle cose e delle persone che hanno popolato il suo universo.
Il suo potere risiedeva negli occhi penetranti che affondano nell’essenza delle cose riportandole in superficie in uno scenario enigmatico e inquietante e assolutamente ambivalente, capace di contenere gli opposti che si celano in ognuno di noi.
Tra gli anni ‘30 e l’inizio dei ‘50, Fini dedicherà numerosi quadri alle donne-streghe, periodo in cui la sua ricerca si avvicina in maniera significativa alla corrente del Surrealismo parigino.
In Stryges amaouri lo sguardo di rimprovero che la Fini-strega rivolge allo spettatore dà l’impressione che il nostro voyeurismo abbia interrotto una cerimonia iniziatica dove l’animale ibrido simile a un gatto - animale a cui Leonor sarà sempre devota - incombe con in mano un uovo, simbolo rinascimentale di generazione e rinascita.
La morte apparente della natura, segnalata dalle foglie gialle e accartocciate della stagione autunnale, ha il suo contrappunto nel lento ritmo dell’edera che dal terreno si espande, sotterranea, verso un corpo che preserva la sua fiamma vitale grazie alla magia della sacerdotessa Leonor che, a dispetto dei toni mortiferi del cielo e di una tavolozza desaturata, veglia affinché ciò che sembra morto possa rinascere.
Allo stesso modo lei rinasce in ogni sua opera quando afferma:
Parla qualcuno che mi somiglia
prendendo in prestito la frase di Jean Pache con cui apre il suo Le livre de Leonor Fini.
I suoi quadri sono popolati dalle sosia di Leonor (o doppelgänger) che, come le stagioni, cambiano pelle, ma preservano il potere del fascino di una donna che non ha avuto paura di presentare i lati più oscuri e reconditi del proprio io, per serbare ciò che è vitale: l’attitudine a rinnovarsi nell’animo e nello spirito.
Io sono LEONOR FINI
a cura di Tere Arcq e Carlos Martín
Milano, Palazzo Reale
26 febbraio - 22 giugno 2025